Se c’è un disco che posso affermare essere il culmine e la quintessenza del black metal, senza temere di esagerare, è questo capolavoro del 1996. È talmente significativo che nemmeno le divinità potrebbero escluderlo dal podio del vero black metal norvegese, dove troneggia al fianco di capisaldi come “Hvis Lyset Tar Oss” di Burzum e “A Blaze in the Northern Sky” dei Darkthrone.

“Nattens Madrigal – Aatte Hymne til Ulven i Manden”, un’opera registrata nelle viscere di una foresta, in poche ore, utilizzando un leggendario amplificatore a quattro canali, trasportato lì con un’auto a noleggio finanziata dal primo contratto discografico importante della band. Questo album è stato prodotto in presa diretta, senza alcun intervento di mixaggio, incarnando lo spirito e l’essenza pura del primo black metal, in quella brevissima ma intensa pagina di storia che la Norvegia ha scritto per questo genere e i suoi più celebri esponenti.

Questo è il black metal nella sua forma più pura e incontaminata, eccezion fatta per un breve istante brillante, unicamente fedele a se stesso.

Otto inni dedicati all’entità selvaggia, al lupo che risiede in ogni uomo, incisi con una ferocia quasi barbarica in quella notte mitica, in una foresta la cui ubicazione rimarrà per sempre un mistero, in quell’istante fuori dal tempo in cui le divinità pagane, custodi della Scandinavia e della sua oscura melodia, scesero tra noi per guidare Garm, AiwarikiaR, Haavard, Aismal e Skoll nella creazione del loro magnum opus. Rimangono, con una qualità sonora piuttosto grezza, che non fa che aggiungere al fascino indiscutibile e eterno dell’opera.

Il suono delle chitarre è aspro, aggressivo, distante e selvaggio, ma allo stesso tempo epico e trascendentale nella sua barbarie; il basso, sebbene invisibile, è una presenza costante; la batteria sferra attacchi rapidi e sporadici, ma incredibilmente precisi ed efficaci; e la voce, ah, la voce… Uno screaming straziante, infernale, mai esplicitamente satanico ma profondamente evocativo, estremamente distintivo e potente, un grido che squarcia l’anima come frammenti di ghiaccio.

Le tracce sono minimaliste, sia nella tecnica che nella varietà, ma ciò non impedisce loro di rappresentare, oggi e probabilmente per sempre, alcuni tra i riff più belli e commoventi dell’intera storia del black metal. Melodie delicate ma al tempo stesso incantate, diaboliche, oscure come il più profondo degli inferi. Scuri e scintillanti come il ghiaccio negli occhi di quella bestia che vaga nelle foreste gelide, finalmente libera, svincolata dalla sua sete di sangue e malvagità, quella bestia che Garm celebra nel canto alla luna di sangue in “Hymn V: Of Wolf and the Moon”, quella bestia selvaggia e improvvisamente folk in “Hymn I: Of Wolf and Fear”, quella creatura oscura e onirica di “Hymn III: Of Wolf and Hatred”, o quell’essere frenetico e dominante in “Hymn IV: Of Wolf and the Man”.

Impossibile dimenticare il riff, l’epitome dell’epica, che tocca l’anima nel racconto del lupo e della sua sposa in “Hymn VII: Of Wolf and Destiny”, o le tastiere gelide che concludono “Wolf and the Night”? E che dire dell’interludio cupo e maestoso dei passi della bestia, delle tastiere che avanzano in modo terribile, lento, sommesso, attraverso TUTTE le tracce? Come potrebbe essere dimenticato?

Testi in dano-norvegese antico di tre secoli fa; musica che risuonerà in eterno nei prossimi tre.

VOTO AL DISCO: 6/10

Di Dalagh The Red

Programmatore Esperto, Nerd Veterano, Mago di Internet, essere umano; sì, in quest'ordine. Giocatore da tempi immemori di Magic ha scalato le classifiche per oltre un decennio, non dimenticando le sue sessioni GDR con diverse modalità. Lui Lui

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